domenica 19 febbraio 2012

Bencini Comet


Correggeva il caffè.
Si accendeva la sigaretta sempre alle 23.20.
Apriva sempre la finestra alle 23.27.
Guardava fuori.
La nebbia la amava. Era come nella sua testa. C'era qualcosa di chiaro sotto tutta quella bruma aggrovigliata dei ricordi. C'era ma non sapeva dove.
Chiudeva sempre la finestra alle 23.43.
Prendeva una scatola, alle 23.50. Si sedeva accanto. Sembravano conoscersi da tempo. Sembrava avessero tanto da dirsi. La apriva sempre, quella scatola. Ci guardava dentro. E i sogni di tutta la notte li faceva in quell'istante. Scompariva, ritornava, partiva, ricordava. Viveva.
Era autunno quando decise di prendere quella scatola. Il vento faceva volteggiare in un tango le foglie rosse prima che punteggiassero, stanche, i marciapiedi del Parco Valentino. C'era un odore, quegli odori che ti porti addosso sempre, quei ricordi ai quali non potrai mai sfuggire. Sono lì, sono vulcani addormentati. Si fermò. E pensò al rosso. Al rosso, che era diventato da quel momento il suo colore. Il rosso dei tetti, il rosso di certi pavimenti, il rosso della Coca Cola, degli autobus inglesi, del sugo della domenica, il rosso delle bandiere rosse. Il rosso di quella scatola. L'aveva comprata lì, la scatola, nel negozio affianco a quel bar, quel bar. Ci era ritornato per un peccato, per un Bucerin. Il suo posto preferito era quello vicino la grande vetrata che lo difendeva dalle persone che facevano loro i portici. Due si danno le spalle, un uomo e una ragazza, e non si guardavano più. Bisogna esser sicuri della propria schiena, è la parte del nostro corpo che diamo spesso e che non guardiamo mai. Lei abbassa la testa. Cammina e poi più veloce e poi corre. Il cielo sembrava immenso con lei. Il cielo sembrava invisibile per lei.
Pensava all'errore dei due. Pensava a quanto si sbaglia nel non pronunciare parole per non rischiare di deludere. Pensava a quanto avesse sbagliato anche lui.
Affianco il bar c'era il portone di casa sua. Era uscito quasi di fretta. Si era alzato, alzato il bavero. Aveva una scatola rossa da riempire, da conservare, da dimenticare. Era entrato in casa, e in una stanza c'era lei. Muta. Muta e incantevole. Era estate quando l'ha vista la prima volta e lei aveva qualcosa di tremendamente affascinante. Ma ogni volta che la vedeva, pensava a Sophie. Pensava che con lei provava un continuo jamais vu. Il jamais vu è il contrario di dèja vu. E' quando incontri incontri le stesse persone di continuo ma è sempre come se fosse la prima volta. Come se Sophie fosse stata sempre una sconosciuta. Con Sophie ci faceva l'amore. Ci faceva l'amore anche da lontano, come se i loro cuori attraversassero cemento e muri e s'incontrassero nel mezzo della città. Guardava Sophie attraverso lei, guardava il suoi denti storti, le anse delle sue orecchie che erano senza lobo e attaccate, il liquore che aveva versato sul divano in pelle, le perle della sua collana che ormai era rosario del suo dolore. In lei c'era tutto quello che non aveva più Sophie. Aveva il senso di colpa ogni volta quando vedeva lei lì, ferma, appoggiata a quel mobile di ciliegio. Aveva un terremoto dentro. Aveva le stesse macerie, la stessa polvere. La guarda e le dice:"Questa scatola è per te. Sono io. E' vuota dentro, ma devi entrarci. Avrai una nuova vita, in fondo è come se fosse la tua rinascita. Buon compleanno."
La casa era invivibile. "Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici."
Era andato verso la porta. Doveva sentire il portone alle sue spalle. Doveva camminare.
Da bambino camminava sulle piastrelle, contandole, senza pestare le linee. Non staccava mai gli occhi da terra. Non l'avrebbe mai detto che crescendo avrebbe preferito vedere le stelle.
Sophie diceva che in certi posti si nascondono frammenti di vite non vissute. E lui si apprestava a non vivere la sua, in un posto che urlava di sudore e vento. Urlava di Sophie e di lei e di lui. Urlava di loro tre. Urlava di lei, a cui aveva detto che l'avrebbe ritrovata prima o poi, anche se non si trova chi non si può cercare.
Lei che adesso era in quel vuoto, in quella scatola rossa. Lei che sapeva dei denti storti, delle anse delle orecchie che erano senza lobo e attaccate, del liquore versato sul divano in pelle, delle perle della collana. Lei, vista in un giorno d'estate. Lei, testimone di un amore. Testimone di due amori. Testimone di un pezzo di vita. Lei che era lì quando Sophie gli aveva detto che "si sarebbero trasferiti a Parigi un giorno, e non avrebbero mai più avuto i soldi per tornare indietro". Lei, che aveva sentito, che era proprio lì tra le mani di Sophie quando gli aveva detto:"Parto per Parigi. Mi chiedo se avrai mai il coraggio di lasciare lei per una donna. Per una donna come me. Tu meriti qualcuno che guardandoti negli occhi riesca a farti vedere il mondo come te lo fa vedere questa Bencini."
Si accendeva la sigaretta sempre alle 23.20.
Apriva sempre la finestra alle 23.27.
Guardava fuori.
La Tour Eiffel non era mai stata così abbagliante.
Ecco.
Io mi faccio un sacco di film, normalmente.
Ma quando il mio meraviglioso fidanzato mi regala un gioiellino del genere, mentre in una domenica piovosa siamo a un mercatino dell'antiquariato e mi vede innamorata di questa Bencini io mi faccio un sacco di storie in testa. Di chi era, cosa e chi aveva fotografato (secondo me c'è una specie di fantasmi di rullini nel vano di queste macchine fotografiche, c'è lo spirito dei ricordi, in cose come questa)
C'è qualcosa di magico in lei, qualcosa di tremendamente affascinante. Ha addosso le impronte degli anni '50, di CocaCola in bottiglia, di nebbia e di pois. Ha ancora in sè quella speranza intima dell'aver fotografato quel tramonto come era dentro gli occhi di chi l'ha maneggiata, dentro, dentro i suoi occhi e non davanti.
E ora è qui, tra le mie mani. Ho tra le mani un piccolo sogno antico.
Grazie, Giuseppe <3

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